Quando Symus si addentrò nella radura, silenzioso come un’ombra mortale sulle tracce della sua preda, mai avrebbe immaginato di ficcarsi in un guaio simile. D’altronde per essere un cacciatore, egli era il più giovane della sua specie, e a ragion di questo, forse proprio per questo, troppo aveva lasciato al caso pur di seguire l’istinto. Già, perché se c’era un pretesto forte abbastanza da trascinare un Wym’eral fuori dalla sua tana, quel qualcosa era proprio la giallastra essenza d’anima che il cacciatore annusava nell’aria d’autunno, tra le fronde immobili e il silenzio assoluto di un bosco disabitato.
Qualcosa c’era, Symus ne era sicuro come l’alba che lo svegliava e il tramonto che gli intimava di chiudere gli acuti occhi gialli. Il cacciatore la sentiva, la vedeva, l’inebriante presenza di un’anima umana. Troppe erano le tracce malamente nascoste sotto le foglie. Troppi gli indizi, i rami spezzati e il filo di nebbia che serpeggiava fra gli alberi. Da lì era passato qualcuno, e chiunque fosse non era stato cauto abbastanza, perché a giudicare dalla foga con cui Symus lo cercava, aguzzava la vista per colmare la distanza, le sue ore di vantaggio potevano contarsi sulle dita di una mano monca.
Mentre avanzava nel folto, Symus pensava a tutte le possibili varianti con cui avrebbe intrappolato l’intruso. L’ambiente gliene forniva moltissime.
A Toradir funzionava così. C’erano prede e cacciatori in costante equilibrio, in una sorta di gioco che da sempre vedeva vinti e vincitori. Mentre continuava a seguire le tracce, il cacciatore si lasciò andare ai ricordi. A volta capitava che non riuscisse a nutrirsi per giorni e doveva accontentarsi dell’anima di qualche insipido animaletto erbivoro. In quei momenti diventava difficile andare avanti, perché la debolezza avanzava e a lui non rimaneva che attendere nel buio del suo giaciglio.
Altre volte la fortuna si volgeva a lui servendogli su un piatto d’argento incauti e ben più saporiti avventurieri. Niente poteva competere con le infinite sfumature di un essere umano, questo il cacciatore lo sapeva bene. L’intreccio di pensieri complessi, l’enormità di ricordi, lo sterminato mare di sogni in cui galleggiava la coscienza di un uomo, o meglio ancora di un bambino non ancora toccato dalle preoccupazioni, erano cose di cui Symus non riusciva a fare a meno. Nutrirsi in quel modo permetteva di vincere la costante decomposizione che la sua natura di Wym’eral gli imponeva. Non poteva farci nulla, nonostante si rendesse conto che nelle sue azioni c’era qualcosa di cattivo e profondamente sbagliato. Lui, senz’anima, era costretto ad appropriarsi di quelle altrui pur di concretarsi in un mondo che gli era ostile sotto ogni aspetto.
L’aveva imparato da piccolo, come è solito fare il suo popolo. All’inizio gli veniva difficile. Non c’era niente di divertente nel condannare all’oblio una creatura. Non era bello vedere la ragione, sia pure primitiva o evoluta, abbandonare gli occhi della preda, lasciare il corpo come un involucro vuoto, una carcassa destinata alla non-vita. Perché Symus era conscio di non uccidere, dato che non si cibava della carne e non versava sangue, ma era altrettanto certo che le sue vittime non sarebbero state più le stesse.
Lo aveva sperimentato su un cervo, anni prima. Era stato la sua prima conquista. Gli si era avvicinato senza commettere il minimo errore, in silenzio, a passi lenti e impercettibili come gli era stato insegnato dal maestro. Il cervo lo aveva guardato con uno sguardo molto prossimo alla paura e non c’era stato nulla da fare. Si era acquattato, in totale balia del Wym’eral, e senza opporre resistenza aveva lasciato che Symus si cibasse di lui, a pochi metri di distanza, con quel suo naso adunco che aspirava, letteralmente, forza di volontà, istinto, voglia di vivere. Poi il cervo si era accasciato sull’erba, gli occhi vacui e il corpo che respirava ancora un aria che per l’animale non significava niente altro che perdurare in quella condizione. Symus si era sentito un mostro. Lo ricordava con una nitidezza che a distanza di tempo non aveva perso il colore, le sensazioni, i rumori di quelle ore. Ricordava anche di essere stato male il giorno seguente, quando era tornato nello stesso posto e il cervo era ancora lì, con la pelliccia che andava su e giù a un ritmo sempre più veloce e lo stesso sguardo, vacante di tutto quello che era stato prima del loro incontro, a posarsi su di lui come a voler comunicare un delitto innominabile. Allora aveva pianto fino a quando il mondo attorno a lui si era fatto freddo e buio, giurando a se stesso che una cosa del genere non sarebbe più accaduta.