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New Moon, di Stephenie Meyer
Meno di zero, di Bret Easton Ellis
La cosa dei monti Catskill, di Alan Ryan
Uomini che odiano le donne, di Stieg Larsson
La metà oscura, di Stephen King
Le creature del buio, di Stephen King
Hunger Games, di Suzanne Collins
A caccia della bestia da un miliardo di piedi, di Tom Wolfe
Nodo di sangue, di Laurell K. Hamilton
Through the storm, di Lynn Spears

Brutti forse non è il termine adatto. Sottotono, magari, se confrontati ai capolavori del post precedente, con due eccezioni: New moon e Nodo di sangue mi hanno proprio fatto cagare. Non chiedetemi perché li ho letti.
Le creature del buio l’ho abbandonato a pagina 100 con la promessa di riprenderlo più avanti. Non mi era mai successo con un libro di King, però, e questo andava detto. La metà oscura non mi ha fatto impazzire.
Meno di zero è sopravvalutato da morire, anche se resta la voglia di approfondire l’autore.
Uomini che odiano le donne è stato troppo lento a svelarsi, molto meglio da questo punto di vista il seguito, La ragazza che giocava con il fuoco.
Gli altri così così.

In ordine di preferenza:

Il mondo in un tappeto, di Clive Barker
La strada, di Cormac McCarthy
Al di là dei sogni, di Richard Matheson
Hyperion, di Dan Simmons
Il gioco di Ender, di Orson Scott Card
A sangue freddo, di Truman Capote
Amabili resti, di Alice Sebold
Shutter Island, di Dennis Lehane
Il porto degli spiriti, di John Lindqvist
A volte ritornano, di Stephen King

Quattro su dieci letti in formato eBook in quanto impossibili o quasi da reperire (e sia benedetto il Kindle per questo).
Anche quest’anno ho seguito il criterio di scegliere un solo libro per autore. In tal senso sono rimasti fuori dalla mia classifica i pur meritevoli Tre millimetri al giorno di Matheson, La caduta di Hyperion di Simmons, Apocalypse e Cabal di Clive Barker, La storia di Lisey e Notte buia, niente stelle di Stephen King. Non mi sono piaciuti abbastanza Ghosts di Joe Hill e La lettrice bugiarda di Brunonia Barry.
A seguire, nei prossimi giorni, la classifica dei dieci più brutti.

Cento di questi giorni e un grazie. Grazie per le tue storie. Grazie per le emozioni, i brividi, i sudori freddi. Grazie per le risposte che troviamo leggendo i tuoi libri. Grazie per Pennywise, Annie Wilkes e Randall Flagg. Grazie per i tramonti che tremano d’orrore e la tua incredibile, spietata capacità di sondare l’animo umano come nessun altro è mai stato in grado. Grazie per esserti spinto là dove nessuno osa. Grazie per la speranza, la passione e il talento che pregna ogni tua pagina. Grazie Maestro.

Questo libro purtroppo l’ho letto solo molto tempo dopo aver visto il film a cui ha dato ispirazione: Hellraiser.
Devo dire però che questo non ha minimamente svilito la potenza evocativa e perversa, tipica di Barker, delle idee che lo sorreggono.
La scatola di Lemarchand e ciò che comporta risolvere il suo enigma, ovvero spalancare le porte di un mondo dove albergano mostri e supplizianti è una trovata affascinante, che non lascia indifferenti.  E’ una di quelle immagini disturbate che urlano genio e che solo un autore come lui riesce a portare alle estreme conseguenze, come se i protagonisti si perdessero davvero tra le pieghe del cubo di rubik maledetto che stringono tra le mani. E tanto più gli sventurati soffrono nella dimensione del dolore, tra carni straziate e spuntoni conficcati un po’ ovunque, tanto più gode il lettore nel vederli vittime di un meccanismo sadico dal quale la via di fuga è un’opzione non contemplata.
L’unico difetto? E’ corto e si esaurisce in fretta con il solo risultato di farti venire voglia di rileggerlo ancora e ancora. Ma a quel punto non è più la stessa cosa.


Ho aspettato un anno, un lungo anno in cui molte sono state le domande a cui ho cercato di dare una risposta dopo aver letto Una lucida moneta d’argento. Adesso le ho trovate in parte, quelle risposte, perché La rosa e i tre chiodi è un romanzo trascinante, enormemente superiore al primo in ogni frangente, ma è anche un romanzo subdolo, che spiazza e solleva nuovi dubbi laddove si aveva avuto l’effimera illusione di aver risolto i vecchi.
Perché GL è bravo, bravissimo a tenerti sulle spine e avvolgerti nella cupa atmosfera del Dent de Nuit, ma è altrettanto capace di squarciare il velo per mostrarti la sua visione e lasciartela intravedere appena, a sprazzi, a porzioni e piccole dosi, quasi con cattiveria, sapendo che la tenebra piomberà sul lettore nell’istante stesso in cui sta per appropriarsene. Ed è questa croce e delizia di una storia che, secondo me, non trova nella struttura a trilogia la sua forma migliore.
Il resto è una lunga sequela di azione e veemenza.
Se W1 è una sorta di lungo prologo, l’anticamera dell’inferno stesso, W2 è corsa forsennata sui binari di demoniache montagne russe. Se W1 profumava e puzzava al tempo stesso di personaggi memorabili, in W2 avrete un’idea più chiara – ma mai fino in fondo – di chi è buono e chi è cattivo, di chi è destinato a vivere e chi a morire.
La rosa e i tre chiodi è un Caius Strauss mai così confuso e potente, è sentire il rintocco argentino di una campana là dove si estende il mare di Hidaric, è Rochelle la Rarefatta che brama carezze senza poterne avere e Mathis che evoca il Celibe perché è l’amore a guidare le sue mani prive di Permuta.
E’ Pilgrind il Barbuto, l’Apriporta, L’uomo dei Fiori, l’uomo dai mille nomi e dalle mille intenzioni, è un bambino che nella Berlino assediata del 45′ si lascia andare all’ambizione più sfrenata e per questo perderà ogni cosa, è Lucylle e il suo mondo fatto d’ali, cielo e dolcezza. E’ ceterastradivari e qualunque cosa significhi, oltre Parigi, oltre i varchi, oltre la rosa che sprizza sangue dal petto del Wunderkind.
E qui vi dico: se W1 vi è piaciuto, amerete anche il secondo in un modo forse complicato, odioso, quasi fosse una relazione difficile da gestire ma non per questo meno sincera, o piacevole. Sapete cosa aspettarvi, insomma.
Se il primo – al contrario – non vi ha detto molto, col secondo episodio potreste cambiare idea, perché D’Andrea arricchisce la vicenda di particolari inediti, agghiaccianti nella loro perfezione, e quello che vi sembrava non avere alcun senso nel primo capitolo, preda di uno svolgersi volutamente anarchico e nebuloso, qui assume forme, collocazioni e identità ben precise. Se invece rientrate tra i fortunati che ancora tentennano o non conoscono l’autore, il mio suggerimento è quello di leggersi W1 e 2 in rigorosa sequenza, perché è questa la chiave di volta per capire il messaggio di GL nella sua totalità.
Io, per quel che mi riguarda, mi preparo alla lunga attesa che mi separa dall’epilogo.

Nuovo racconto, scritto per il laboratorio di composizione in lingua italiana a cui sto partecipando con l’università. Lo trovate qui da leggere su schermo o qui da scaricare come pdf. E’ una specie di noir che vira verso l’horror più efferato. Ah, c’è anche una citazione molto famosa.
Fatemi sapere se vi piace e se siete riusciti a trovarla.

Questo è uno di quei casi in cui dire “buon sangue non mente” è una cosa quanto mai appropriata.
Se con La scatola a forma di cuore, che in realtà viene dopo questa raccolta nonostante in Italia sia stato pubblicato prima, Joe Hill aveva già dimostrato di saperci fare, con Ghost il figlio di King trasforma il promettente in una lucida certezza. A mio avviso Hill possiede la stoffa del narratore anche nel difficile e affollato mondo dei racconti, cosa tutt’altro che semplice per autori navigati, figuriamoci per un esordiente. Non sono tutti belli allo stesso modo, sia chiaro, e lo stile di King junior è profondamente diverso da quello di suo padre, ma devo dire di esserne rimasto sorpreso e, a tratti, spiazzato.
Joe Hill è bravo, pieno di idee vincenti, non ha paura di osare e la sua voce è lirica, a suo modo romantica e piena di venature sottilmente crudeli. Possiede una fantasia sbrigliata, toccante e molto rara da trovare oggigiorno. Joe Hill racconta l’orrore e non solo narrando di fantasmi, atmosfere claustrofobiche, rivisitazioni di vampiri, tematiche kafkiane e film di fantascienza di serie b, e lo fa con un registro stilistico personale di una maturità assoluta, considerando che questo è, ai fatti, il suo primo lavoro dato alle stampe. Cosa più importante, non è prolisso come il padre riuscendo tuttavia a restituire le stesse meravigliose emozioni. In questo modo la lettura scorre veloce, senza incepparsi, e le storie catturano e non ti fanno mollare il libro fino a quando non lo termini. Certo, si nota qua e là una certa velocità a volerle concludere in modo forse troppo affrettato, ma questo è evidentemente un difetto che si è tramandato nel dna assieme a tutti i pregi del caso. Al di là di qualche piccolo svarione stilistico il talento c’è e spicca come un diamante in una cesta di mele marce.
Memorabili i racconti Best new horror, Un fantasma del ventesimo secolo, Pop Art, che è il mio preferito, Il canto della locusta e Il telefono nero. Mi sono piaciuti molto anche Il mantello, che ha una conclusione davvero degna di nota, L’ultimo respiro, La colazione della vedova, inquietante e perverso e, dulcis in fundo, La maschera di mio padre, perfetto dalla prima all’ultima parola.
Joe Hill è un autore da tenere d’occhio, lo avevo già scritto qui, ma adesso so che ha il potenziale giusto e sono sicuro farà faville anche senza stare a scomodare l’ombra del padre, comunque presente (ed è inevitabile) in qualche piacevole citazione e in generale nel suo background e formamentis. Non vedo l’ora di leggere Horns.


Qui
la prima parte. Qui la seconda.


Non gli ci volle molto. La vide, una sagoma ferma vicino al fiume, accovacciata come a studiare il terreno, o l’acqua. Il cacciatore era sempre più vicino, e adesso l’odore si era fatto pungente. Era pieno e meravigliosamente impossibile da ignorare. Quella donna traboccava di Wym. Gli volava addosso come polline rilucente, come i lembi di un vestito flessi dal vento. Sarebbe bastato a sfamarlo per giorni interi, forse addirittura settimane, tanto era intenso. Allora avanzò ancora, guardingo. Solo pochi passi lo separavano dalla preda. Un balzo calcolato e tutto avrebbe avuto fine. Eppure la donna, voltata di spalle, si muoveva ondeggiando da una parte all’altra. Cantava, a bassa voce, in una lingua che Symus non seppe riconoscere.
L’impensabile accadde quando il cacciatore arrivò a toccare il Wym e iniziò a farlo suo. La vita di quella creatura così indifesa gli si parò davanti agli occhi come una barriera. Avrebbe dovuto capirlo.
Symus sentì i suoi ricordi conficcarsi nella testa, il molteplice intrecciarsi di tante esistenze quante ne erano iniziate e finite, come se gli fosse in qualche modo stato permesso di vedere oltre, arrivare al senso stesso delle cose in un susseguirsi di luci e ombre. Ma non fu piacevole, perché pur percependo un’energia nuova, prodigiosa, feconda di sensazioni mai provate, il Wym’eral vide anche cose orribili, squassanti. Cose che gli bloccarono gli arti e fecero tremare ogni sua certezza. Vacillò di fronte a ciò che non avevo ancora conosciuto: sapere che per la prima volta la preda era stata più forte del cacciatore. Fu allora che la donna si voltò, al culmine delle convulsioni che lo stavano consumando. Lo fece lentamente, rivelando un sorriso al limite della lascivia e un viso massacrato di cicatrici, da cui spiccavano un paio di avvizzite orbite vuote. Lì, in quel preciso istante, nel buio della radura bagnata dal fiume, Symus capì in un modo definitivo e brutale quello che aveva provato il cervo la mattina di molti anni prima. Il senso d’impotenza, la rabbia per non averlo previsto che stingeva lasciando solo paura, dilagante come la marea nell’oceano del suo cuore.
Era diventato cervo egli stesso, con tutto il dolore che comportava. La mente gli si chiuse, la coscienza si ritrasse fino a sfilacciarsi in qualcosa d’inconsistente, come il dito di un bambino che indugia troppo vicino a un fuoco che non conosce. Symus chiuse gli occhi e dentro di sé vide l’oblio. Poi sorrise e gli corse incontro, perché aveva trovato la sola strada in grado di regalargli la libertà. Lo sentì spalancarsi su di lui e inghiottirlo come una bocca gigantesca. Se ne andò così, come un sussurro, o l’onda di un sussurro che si placa piano.
Per sempre.


I giorni seguenti a quell’avvenimento, ancora forte dell’energia del cervo in corpo, il Wym’eral decise di parlarne con il suo maestro. Scelse le parole attentamente, come a non volersi spingere troppo oltre nei suoi confronti. Sapeva che un passo falso avrebbe significato scatenare la sua collera e giocarsi la fiducia conquistata in anni e anni di addestramento.

<<Maestro>> aveva esordito nel silenzio del tempio, con la voce simile a un grottesco sussurro, ma lui aveva distolto gli occhi dal vuoto e nel modo in cui l’aveva guardato c’era qualcosa di terribile, peggiore del risentimento stesso, perché il Sacro Sciamano Heinon conosceva già la domanda.
<<Perché rinnegare ciò che siamo? Perché non dovremmo assecondare gli istinti che la nostra natura ci suggerisce? Preferiresti forse assomigliare a un cane o reincarnarti in una di quelle stupide creature umane? Un giorno capirai>> aveva continuato <<che il nostro è un potere che in molti ci invidiano, e che quello che ti sembra un orribile fardello ti sarà utile più che mai, durante il Rito delle Ombre.>>

Il Rito delle Ombre. Il maestro lo aveva detto in un modo fin troppo sinistro. La sua voce era salita di tono, si era fatta gretta, penetrante come può esserlo solo l’ululato di un lupo nel cuore della notte. Allora Symus aveva accettato la risposta con più dubbi che certezze. Non era facile prendere come un dono una maledizione del genere, anche se presto si era reso conto di non avere scelta. La cosa peggiore erano gli incubi che affollavano le sue notti dopo ogni caccia. Si presentavano sempre nello stesso modo, mozzandogli il respiro in quel frastagliato angolo della coscienza che si sveglia quando su tutto il resto cala la quiete del riposo. Lì, nel buio insondabile, Symus sentiva delle voci orribili. Voci che lo chiamavano, tra le più diverse, dalla grana ora sporca e arrochita, ora suadente, come se un intera legione di corpi privi di ragione urlasse il suo nome appena sotto la superficie del mondo su cui poggiava.
Col tempo e l’esperienza, anni dopo, quando la conversazione con colui a cui doveva tutto era sbiadita nella piega dei ricordi, il cacciatore aveva afferrato quello che il suo maestro voleva dirgli.

La sensazione di prevaricazione non era scemata, certo, e nemmeno gli incubi, ma a essi si era aggiunta un’euforia unica nel momento in cui l’anima altrui finiva per fondersi con lui, un’emozione che era stata in grado di corrompere, vittima dopo vittima, i buoni sentimenti del Wym’eral per tramutarsi in qualcosa di piacevole.


Adesso Symus voleva anime, le pretendeva quasi, per saziare la sua fame e bloccare la spiacevole tendenza a perdere pezzi del corpo.

Annusò l’aria per tracciare la strada giusta. Il Wym, l’essenza d’anima, riusciva a vederla a occhio nudo, ma era più all’olfatto che si affidava. Nonostante la scia fosse di un tenue colore dorato era molto facile confonderla in un ambiente che tendeva al giallo. Oltre il sottobosco, le colline erano un continuo di foglie, arbusti e bassa vegetazione appassita dall’autunno. Svoltò a sinistra, seguendo un sentiero naturale libero dai rovi. Si fermò perché in quel punto l’odore era più intenso, carico di tante cose.

<<Sei vicina>> disse a bassa voce. Aveva capito fin da subito che si trattava di una donna. Symus fiutava una paura atavica e irresistibile. La vedeva materializzarsi come una coltre di nubi prossime alla pioggia, come la neve d’inverno e il fuoco di un incendio appiccato per uccidere.
L’umana a cui dava la caccia era sola e si era persa. Era entrata nella foresta da non più di un paio d’ore, spinta da chissà quale insensata ragione. Riuscì a vedere oltre, passando da una sensazione all’altra come si fa con una fragranza che ne ha in sé una moltitudine. Mise a fuoco il suo viso e sorrise. Gli bastò un attimo per capire dove si trovasse.

Poi corse, tagliando l’aria con un crepitio che si lasciò dietro foglie e terra bruciata.


Quando Symus si addentrò nella radura, silenzioso come un’ombra mortale sulle tracce della sua preda, mai avrebbe immaginato di ficcarsi in un guaio simile. D’altronde per essere un cacciatore, egli era il più giovane della sua specie, e a ragion di questo, forse proprio per questo, troppo aveva lasciato al caso pur di seguire l’istinto. Già, perché se c’era un pretesto forte abbastanza da trascinare un Wym’eral fuori dalla sua tana, quel qualcosa era proprio la giallastra essenza d’anima che il cacciatore annusava nell’aria d’autunno, tra le fronde immobili e il silenzio assoluto di un bosco disabitato.

Qualcosa c’era, Symus ne era sicuro come l’alba che lo svegliava e il tramonto che gli intimava di chiudere gli acuti occhi gialli. Il cacciatore la sentiva, la vedeva, l’inebriante presenza di un’anima umana. Troppe erano le tracce malamente nascoste sotto le foglie. Troppi gli indizi, i rami spezzati e il filo di nebbia che serpeggiava fra gli alberi. Da lì era passato qualcuno, e chiunque fosse non era stato cauto abbastanza, perché a giudicare dalla foga con cui Symus lo cercava, aguzzava la vista per colmare la distanza, le sue ore di vantaggio potevano contarsi sulle dita di una mano monca.

Mentre avanzava nel folto, Symus pensava a tutte le possibili varianti con cui avrebbe intrappolato l’intruso. L’ambiente gliene forniva moltissime.

A Toradir funzionava così. C’erano prede e cacciatori in costante equilibrio, in una sorta di gioco che da sempre vedeva vinti e vincitori. Mentre continuava a seguire le tracce, il cacciatore si lasciò andare ai ricordi. A volta capitava che non riuscisse a nutrirsi per giorni e doveva accontentarsi dell’anima di qualche insipido animaletto erbivoro. In quei momenti diventava difficile andare avanti, perché la debolezza avanzava e a lui non rimaneva che attendere nel buio del suo giaciglio.

Altre volte la fortuna si volgeva a lui servendogli su un piatto d’argento incauti e ben più saporiti avventurieri. Niente poteva competere con le infinite sfumature di un essere umano, questo il cacciatore lo sapeva bene. L’intreccio di pensieri complessi, l’enormità di ricordi, lo sterminato mare di sogni in cui galleggiava la coscienza di un uomo, o meglio ancora di un bambino non ancora toccato dalle preoccupazioni, erano cose di cui Symus non riusciva a fare a meno. Nutrirsi in quel modo permetteva di vincere la costante decomposizione che la sua natura di Wym’eral gli imponeva. Non poteva farci nulla, nonostante si rendesse conto che nelle sue azioni c’era qualcosa di cattivo e profondamente sbagliato. Lui, senz’anima, era costretto ad appropriarsi di quelle altrui pur di concretarsi in un mondo che gli era ostile sotto ogni aspetto.

L’aveva imparato da piccolo, come è solito fare il suo popolo. All’inizio gli veniva difficile. Non c’era niente di divertente nel condannare all’oblio una creatura. Non era bello vedere la ragione, sia pure primitiva o evoluta, abbandonare gli occhi della preda, lasciare il corpo come un involucro vuoto, una carcassa destinata alla non-vita. Perché Symus era conscio di non uccidere, dato che non si cibava della carne e non versava sangue, ma era altrettanto certo che le sue vittime non sarebbero state più le stesse.
Lo aveva sperimentato su un cervo, anni prima. Era stato la sua prima conquista. Gli si era avvicinato senza commettere il minimo errore, in silenzio, a passi lenti e impercettibili come gli era stato insegnato dal maestro. Il cervo lo aveva guardato con uno sguardo molto prossimo alla paura e non c’era stato nulla da fare. Si era acquattato, in totale balia del Wym’eral, e senza opporre resistenza aveva lasciato che Symus si cibasse di lui, a pochi metri di distanza, con quel suo naso adunco che aspirava, letteralmente, forza di volontà, istinto, voglia di vivere. Poi il cervo si era accasciato sull’erba, gli occhi vacui e il corpo che respirava ancora un aria che per l’animale non significava niente altro che perdurare in quella condizione. Symus si era sentito un mostro. Lo ricordava con una nitidezza che a distanza di tempo non aveva perso il colore, le sensazioni, i rumori di quelle ore. Ricordava anche di essere stato male il giorno seguente, quando era tornato nello stesso posto e il cervo era ancora lì, con la pelliccia che andava su e giù a un ritmo sempre più veloce e lo stesso sguardo, vacante di tutto quello che era stato prima del loro incontro, a posarsi su di lui come a voler comunicare un delitto innominabile. Allora aveva pianto fino a quando il mondo attorno a lui si era fatto freddo e buio, giurando a se stesso che una cosa del genere non sarebbe più accaduta.