Archivio per settembre, 2009

Quando aprii gli occhi mi sentii cieco.
Era buio pesto, giacevo a terra, intorpidito e con un brutto senso di freddo addosso. Ricordo di essermi sentito come una creatura alla quale mancano armi per difendersi, ma a colpirmi non fu questo, e nemmeno l’umidità che sentivo raschiare le mie ossa. A gelarmi il sangue nelle vene era stato il fatto di non avere la minima idea di cosa stesse succedendo. Non ricordavo com’ero finito lì, se c’ero arrivato con le mie gambe o se qualcuno mi ci avesse portato di peso per poi abbandonarmi. Non avevo idea di quanto ci si potesse sentire smarriti in una situazione del genere, senza avere cognizione di spazio e tempo. E poi lì dentro, dovunque mi trovassi, albergava una tenebra così profonda e ributtante da mozzare il fiato. Non un riflesso, non un riverbero. Sbattere le palpebre e sentirsi ciechi, di nuovo.
Sapevo di essere al chiuso per via della puzza di stantio e l’inconfondibile tamburellare della pioggia che si schianta su una superficie metallica. E in quell’oscurità mi sembrava di poter contare le gocce d’acqua, l’una dopo l’altra, tanta era la concentrazione che vi mettevo per ignorare, in realtà, la presenza che a pochi metri di distanza mi aveva dato i brividi.
Era iniziato con un mormorio che feci lo sbaglio di confondere con i rumori esterni, con l’ulular del vento. Era stato questo a destarmi dal sonno confuso in cui versavo. Poi era arrivata, dritta nella mia testa come una scossa elettrica, la consapevolezza che sarei impazzito se qualcuno non mi avesse spiegato il perché di molte cose.
Dov’era George? Era il solo ricordo che riuscissi a dipanare in quella massa informe che avevo nel cervello. Avevamo preso una birra assieme. Ricordo il crepuscolo, il freddo che cala quando il sole fa il suo giro dall’altra parte dell’orizzonte e le stelle appaiono timide sulla volta che stinge dal rosso al blu. Ricordo che avevamo fatto un bel viaggio lungo la provinciale verso Tripwood a bordo del suo veicolo sgangherato. Ce l’eravamo spassata, io e lui, a bere e brindare ai vecchi tempi. Niente era cambiato, nonostante tutto, aldilà del fatto che la vita a volte è crudele e sa sbatterti su carreggiate diverse anche contro la tua volontà.
Poi il nulla, come se a frapporsi tra me e la verità si fosse venuta a creare una voragine.
Tornai in me, strappato via a forza da quelle che fino a prova contraria erano supposizioni, solo perché c’era stato un rumore. Un verso, ora che ci penso, che di umano non aveva nulla. Era la sua stessa, intima natura ad avermelo comunicato. Non saprei descriverlo perché fu lesto e del tutto inaspettato. Indietreggiai istintivamente, toccando la parete. Cercavo solo un fottutissimo interruttore, cazzo, qualcosa che mi rassicurasse. Non lo trovai.
Della presenza invece sapevo che era lì, a pochi passi, anche se non la vedevo. La percepivo come una tremenda realtà, la presa d’atto di un incubo che infrange la barriera dell’ignoto per arrivare nel nostro mondo. Solo che un incubo, per quanto orrendo, cessa di esistere nell’istante esatto in cui si abbandona la dimensione onirica del sogno. Non si concreta in mostro, non respira in quel modo. E non sposta l’aria.
Fu a quel punto che, preso dal panico, allungai la mano e al tatto riconobbi il profilo di una maniglia. Spinsi con rabbia più volte, ma la porta non si aprì.
Ero prigioniero, cristo. Al buio. All’interno di quello che probabilmente era un capanno sperduto Dio solo sa dove, sferzato dalla pioggia e dal vento in una notte che poteva essere una qualsiasi. Rinchiuso lì con quella cosa dannatamente vicina.
In quel momento non mi curai del fatto che il mio telefono cellulare non stava al suo posto, che ero certo di non averlo smarrito e che anche l’orologio mancava dal polso. Erano dettagli, certo, ma in determinate situazioni non sono la prima cosa cui pensi. Per questo non diedi peso nemmeno alla mancanza della scarpa dal mio piede sinistro, nudo e privo di calzino, fino a quando qualcosa lo toccò con una stretta veloce e incerta, e la sensazione fu di un artiglio schifoso dalla consistenza viscida.
Sentii quella cosa farsi strada tra le dita dei piedi, bagnarle e proseguire verso l’interno della gamba, su fino al polpaccio. Mi ritrassi con un unico urlo recalcitrante, ma a zittirmi fu il rimbombo della mia stessa voce tra le pareti.
E ancora una volta quel respiro rantoloso.
Cadde un fulmine lì vicino, e da qualche parte alla mia destra il bagliore del lampo passò attraverso una fessura. Quell’attimo mi fu sufficiente a mettere le cose nella giusta prospettiva. Ero nella merda fino al collo, perché quella che avevo visto non era forse una figura antropomorfa in una strana posizione? Non era una mannaia quella che brandiva?
Grazie a Dio durò poco e non seppi riconoscere altro, ma qualcosa dentro di me dovette pensare che era già abbastanza per i miei nervi, poiché in un paio di secondi contrassi la vescica pisciandomi nelle mutande. Sentii l’orina calda scendere lungo le cosce, bruciare, darmi la pelle d’oca sulla schiena in accordo a una paranoia talmente intensa da crescere nel mio stomaco come un germoglio nero dai bui recessi dell’humus in cui è stato piantato.
Mi venne da piangere, ma i miei furono brevi singhiozzi disperati interrotti da un altro verso, stavolta più forte. Più vicino. Ferale.
Dedussi che qualcuno lassù doveva volermi male, perché quando un secondo fulmine si schiantò non lontano da dove mi trovavo, con un fragore che fece tremare le pareti, dalle tenebre emerse un volto.
Sapete, non esagero quando dico che non c’è giorno in cui quella scena non mi torni in mente, perché quello che vidi, lo ricordo con una lucidità che ancora oggi mi spaventa, era un accenno di sorriso malevolo e un paio d’occhi guidati da emozioni indecifrabili, che mi scrutavano a loro volta, e quello fu il momento cruciale in cui seppi che potevano vedere nel buio laddove io non vi riuscivo. Che quelle pupille contratte dalla violenza del lampo brillavano di una lucida follia, che c’era un uomo lì con me, e cazzo, le sue intenzioni erano ambigue.
Per questo mi sentii mancare l’aria, per questo arretrai ancora nonostante non si potesse scappare da nessuna parte. Frugando tra le tasche trovai un accendino. Quasi mi sfuggì di mano in preda ai tremiti. Sapevo cosa avrei dovuto fare. Il problema era trovare il coraggio di strusciare il pollice contro la rotella, legittimare l’orrore di non essere solo, lasciarmi alle spalle l’idea che fantasia e suggestione possono giocare brutti scherzi.
Balzai in piedi e feci un respiro profondo, cacciando indietro le lacrime e il loro sapore salato sul palato. Diedi gas mentre il cuore mi scoppiava nella gabbia toracica.
Poi una scintilla, e nella luce di quella fiamma crepitante tutto ebbe un senso.

Come saprete, la redazione di aNobii ha deciso di organizzare una simpatica iniziativa collaborando con Rizzoli.
L’idea è quella di pubblicare una raccolta di commenti scritti dai suoi stessi utenti, e pare che alcuni dei miei siano stati giudicati validi.
 Non ne ho ancora la certezza assoluta perché il progetto deve definirsi nella sua interezza, ma qualche dettaglio è già emerso. Il libro prevede le recensioni più votate sui 100 libri più popolari d’Italia. Il titolo provvisorio è Il tarlo della lettura, uscirà entro la fine dell’anno e costerà 18 euro. Da notare: sarà a scopo benefico perché il devoluto, non si sa ancora in che percentuale, andrà a Emergency.
Non nascondo un certo scetticismo, tuttavia. Tralasciando i libri selezionati e il fatto che molti di questi appartengano a uno stesso autore, rubando spazio a titoli secondo me ben più interessanti, resta da capire chi sarà disposto a pagare per leggere qualcosa che è reperibile su internet gratuitamente. A me piace pensare che il progetto abbia delle frecce al suo arco di cui io non sono a conoscenza, d’altronde stiamo parlando di Rizzoli, mica pizza e fichi!
A parte questo è quasi superfluo dire che sono contento. E’ una piccolezza, certo, ma fa sempre piacere quando al tuo lavoro vengono riconosciute delle qualità, e nell’attesa di soddisfazioni più grosse, questa va benissimo.

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… vado in libreria. Per me è un appuntamento fisso, un rito da ripetere all’infinito, un modo piacevole di impiegare il mio scarso tempo libero. E ce la metto davvero tutta, credetemi, perché di solito i propositi sono buoni: entro, butto un occhio alle novità ed esco in punta di piedi, come a non voler disturbare quel mondo fatto di colori e profumo di carta.
Come se la mia presenza lì, in fondo, fosse inopportuna. 
Peccato che questo non succeda mai se non nella mia testa. La verità è che mi capita raramente di uscire senza aver comprato nulla. Mi piglia come un raptus, una mania da shopping compulsivo impossibile da ignorare, difficile da mettere a tacere. Mi viene sete. Sete di sapere. E più bevo, più ne voglio. Ecco perché in questo caso di tornare alla tana con me è toccato a loro. C’avevo sete di Oriente.
Esbat l’avevo già adocchiato da un pezzo, ma a convincermi è stata l’autrice in un modo del tutto indiretto. Ho scoperto il suo blog e quello che ho letto mi è piaciuto molto.
 Per Murakami era solo questione di tempo. Non riuscivo a decidermi: Norwegian Wood o Kafka sulla spiaggia? Alla fine hanno prevalso i commenti su aNobii, davvero uno strumento eccezionale per questo genere di cose. Non mi ha mai tradito eccetto che in un’occasione spiacevolissima, ma sono certo che il paragone proprio non si pone. D’altronde per arrivare a quei livelli, non smetterò mai di sottolinearlo, ci vuole sprezzo del pericolo e un impegno non comune. A scrivere coi piedi.

Perché sarà anche il miglior Presidente del Consiglio da 150 anni di storia repubblicana a questa parte, ma secondo me anche lui, sotto sotto, qualche problema ce l’ha!
 L’autore delle vignette è Stefano Disegni.

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Ho fatto un colpo di testa. Mi sono stufato e ho abbandonato Splinder, reduce da un’esperienza non proprio esaltante a causa di disservizi e lentezza generale dei loro server, in favore della piattaforma WordPress.
 Per quanto ci sia ancora molto da fare, l’essenza del blog resta la medesima. Tutto quello che avete apprezzato in passato lo troverete anche qui, solo in una veste più sobria e minimalista. E per la cronaca, il vecchio Bosco di Toradir resta lì dov’è, libero di essere visionato ogni volta che ne avrete voglia. Per cui se volete continuare a seguirmi, aggiornate pure link, feed e quant’altro perché questo sarà il mio nuovo spazio virtuale fino a data da destinarsi.
Una nuova avventura ha inizio, miei fedeli lettori. Per quelli vecchi e per quelli nuovi.
Alla prossima!